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Ho la sensazione di stare costruendo, giorno dopo giorno, una specie di labirinto. Il mio studio è un labirinto. E' una stanza ricoperta di tavolette, una cripta di ex-voto. Un percorso di sentieri che si biforcano e che si moltiplicano. I miei lavori nascono uno dall'altro. Come  tessere di un mosaico, elementi di una grammatica di un linguaggio privato e severo. Vorrei costruire una mia ortodossia, un sistema coerente di segni che bastano a se stessi. Una struttura che emerge da elementi ripetuti che convergono e si intrecciano. Amo il minimalismo, è da lì che sento di venire.
I miei quadri diventano sempre più piccoli. Ho quasi sempre fatto quadri piccoli. Mi è venuto naturale. Credo che abbia a che fare col pudore, con la difficoltà di esibire. E credo che le piccole dimensioni riescano a favorire la condizione psicologica di caduta, di concentrazione, di discesa interiore. Il piccolo rettangolo che ho di fronte, diventa l'esatto perimetro della mia follia controllata. Il massimo di eccitazione interna si sostiene con il minimo di dispersione fisica. Ho bisogno di semplicità. I miei materiali sono  tavolette di legno, carta, carbone, olio,  cera. E' come una pratica ascetica.  L'atemporalità è uno degli elementi che rende omogeneo ciò che faccio. Una specie di indeterminatezza storica, che finisce per dare al "qui e ora" un senso di incertezza e di sradicamento quali solo l'"altrove" possiede. Qualcosa di legato anche alla struggenza.  La mia è  l'ora del crepuscolo, del momento in cui il mondo trasale e attende immobile. L'istante della rivelazione, quella che i Sufi chiamano Zikhr, la rimembranza di Dio. Per questo la luce della mia pittura non è il luogo della ragione, quanto piuttosto quello della rivelazione, dell'apparizione. Convive intrecciata all'ombra che è l'universo del possibile, del profondo, delle infinite modalità dell'esistenza, della condizione aurorale e originaria.

 
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